Michele Agnolo (o Michelangelo) Florio (Scrollalanza dal lato materno) (n. 1564?), di origine quacquera, visse parte della sua vita, sfuggendo alle persecuzioni religiose, nelle isole Eolie, a Messina, a Venezia, a Verona, a Stratford e a Londra. Fu autore di molte tragedie e commedie ambientate nei luoghi suddetti, che dimostrava di ben conoscere, così come dimostrava di ben conoscere la lingua italiana ed il teatro italiano, nonché di avere una buona dimestichezza con la scena italiana. Alc...
Michele Agnolo (o Michelangelo) Florio (Scrollalanza dal lato materno) (n. 1564?), di origine quacquera, visse parte della sua vita, sfuggendo alle persecuzioni religiose, nelle isole Eolie, a Messina, a Venezia, a Verona, a Stratford e a Londra. Fu autore di molte tragedie e commedie ambientate nei luoghi suddetti, che dimostrava di ben conoscere, così come dimostrava di ben conoscere la lingua italiana ed il teatro italiano, nonché di avere una buona dimestichezza con la scena italiana. Alcune sue opere rinvenute sembrano essere la versione originaria di altre ben note opere attribuite a Shakespeare, come "Troppu trafficu pì nnenti", scritta in messinese, che potrebbe essere l’originale di "Troppo rumore per nulla" di Shakespeare, apparsa 50 anni dopo. Fuggendo con la famiglia, si trovò a vivere per un certo periodo a Venezia, ove pare che un suo vicino di casa, moro, uccidesse per gelosia la propria moglie. Su ispirazione di questa storia scrisse una tragedia: così come Sheakespeare scrisse successivamente l’"Otello". Sempre fuggendo per la persecuzione religiosa, arrivò a Stratford, ove fu ospite di un oste guitto e ubriacone, forse parente della madre, che lo prese a benvolere come figlio, soprattutto perché gli ricordava il proprio figlio, William, che era morto. L’oste prese a chiamarlo affettuosamente "William". A questo punto bastava tradurre in inglese il cognome della madre (da "Scrolla lanza" o "scrolla la lancia" in "shake the speare" o "shake speare") ed ecco il nuovo cognome "Shakespeare". Nasce così WILLIAM SHAKESPEARE, non più perseguibile come quacquero fuggiasco, ma costretto a tenere il mistero sulla sua vera identità e le sue origini. Forse l’oste suo parente era già uno "Scrollalanza" che aveva tradotto il suo cognome, per cui il compianto figlio, già si era chiamato William Shakespeare. Nelle ricostruzioni biografiche successive il grande drammaturgo verrà ritenuto essere il terzo degli otto figli di John Shakespeare. Venuto improvvisamente dal nulla, senza luogo né data di nascita, ed impostosi prepotentemente, soprattutto a Londra, alla ribalta quale drammaturgo ed attore, genera presto curiosità e scalpore, che lo inducono ad accentuare il mistero, per non essere scoperto dai suoi persecutori.
Se davvero Shakespeare fosse siciliano? Ci piacerebbe, per spirito di patria, poterlo credere, ma la storia, si sa, non la si fa coi se! Tuttavia, immaginiamo una Messina in mezzo al mediterraneo così come Shakespeare se la poteva immaginare: esotica, viva, crocevia di magheggi, che avrebbero fatto di una festa nuziale il complicato intreccio per una giostra degli intrichi. Immaginiamola seguendo con le orecchie la parlata di quei personaggi che nel vivo di un dialetto carico di umori e ambiguità, dipana le trame di una vicenda originariamente semplice, ma dai risvolti complicatissimi. Immaginiamo che tutto ciò sia il frutto di un carattere tipicamente mediterraneo, se non propriamente siciliano ed ecco che potremo anche credere, anche solo per una volta, che William Shakespeare, di Stratford- on Avon , sia potuto essere quel tale Michele Angelo Florio Crollalanza partito in fuga da Messina.
Poiché non c’è nulla di meravigliosamente siciliano che il potere complicare, da un dato semplice, una vicenda fino a farla diventare surreale. Moravia amava marcare con Leonardo Sciascia la differenza tra un siciliano e un milanese: un milanese tende a rendere essenziali anche le cose più complesse, un siciliano, diceva Moravia a Sciascia, rende complicate anche le cose più semplici.
Ecco, questo Troppu trafficu ppi nenti è il modello eterno di un carattere terribilmente semplice, come quello siciliano, che ama complicarsi l’esistenza in un continuo arrovugliarsi su se stesso.
Merito particolare di questa creazione, la lingua siciliana illustre ricostruita nelle sue scaturigini più nobili, con qualche spazio per la modernità del proverbiare e scelte fonetiche che appaiono insolite oggi, ma che dovevano essere consuete in corti dove il latino era la lingua diplomatica. Solennità di portamento e dizione rotonda per tutti tranne nei riquadri burleschi che il Bardo inframmetteva anche nelle più cupe storie per stemperarne l'amaro. Allora (nell'episodio della ronda notturna) si sprigiona l'umor faceto di tre guardie dai modi levantini, dal linguaggio misto di assonanze orientali e di comiche caricature espressive. Per il resto è teatro di parola, in cui espressioni arcaiche danno lo spessore di una cultura antica di secoli ai più ignota, di avere esitato a montare la macchina degli inganni che poi non vengono neanche mostrati: non casualmente il regista ha proposto la scena del balcone che l'originale riserva a un veloce racconto pur essendo il perno di tutto, falciando invece tra i frondosi dialoghi che talora fanno sfuggire i caratteri.
Giuseppe Dipasquale